Spiral Out – Metropoli di un Tachipsichico

(crediti immagine: Kenjis9965, su DeviantArt.)

Questa storia non la racconto molto spesso, perchè è personale. Mi svela a un livello molto intimo, e contrariamente a cose simili, come i miei tentativi di suicidio passati o la mia depressione, non riesco a parlarne con leggerezza. Probabilmente è perchè non mi sento inattaccabile a riguardo, non penso riuscirei a difendermi da ogni possibile assalto, è qualcosa che fa parte di me e non ne ho il totale controllo. Per me è come essere il proprietario di un cane perennemente alla ricerca di qualcosa, da tenere sempre al guinzaglio. E arrivati a una prateria, posso solamente decidere la direzione in cui puntarlo prima di lasciarlo libero, sapendo bene che da quel momento in poi non so come potrebbe andare a finire.

Oggi ho visto un episodio di Dr. House. Se non ricordo male uno della terza stagione, in cui uno dei dottori ha a che fare con la propria madre, malata di alzheimer. Egli, consapevole della sua condizione, si confida con lei, e riceve in cambio amore e attenzioni, salvo poi rendersi conto, a metà di un abbraccio, che lei non lo riconosce e non ha la minima idea di chi lui sia.

A me questa cosa ha fatto venire in mente mia nonna Gina, che aveva la stessa malattia. Purtroppo o per fortuna non ci ho avuto troppo a che fare negli ultimi anni, quindi da un lato ora rimpiango di non esserle stato abbastanza vicino, dall’altro sono terrorizzato anche solo a pensare a cosa avrebbe potuto farmi il contatto prolungato con un parente che mi guardava, dopo avermi chiamato per nome tutta una vita, senza essere in grado di capire chi io fossi.

Questa cosa ha liberato tutto un torrente di sensazioni ed emozioni, che prima tenevo come dentro una diga. E il suo cedere non è stato qualcosa di catastrofico come il Vayont, ma una volta ‘sbloccato’ questo canale, è come se altri più piccoli avessero capito che avevano il ‘permesso’ di unirsi. Mi sono trovato a nuotare in un sacco di pensieri diversi, e dato che in quel momento non c’era nessuno ad ascoltarmi, ho fatto una delle poche cose che so fare bene: scrivere ad un foglio tutto ciò che mi passava per la testa.

So bene perchè mi è successa questa cosa del torrente e della diga, non è la prima volta che mi capita, e ormai ho abbastanza familiarità col processo. Non è semplice ansia, non è un qualunque momento di emotività, non è solo essere empatici o nostalgici. E’ tutto quanto correlato a due ‘patologie’ che ho in testa, che mi fanno pensare e vivere in un modo… diverso. Amplificato, più forte, più violento. Sia per le cose positive sia per quelle negative.

Qualche anno fa, se non ricordo male nel 2012, ho cominciato a fare psicoterapia. Non avevo nemmeno ancora aperto il mio canale YouTube, e il nome ‘BerroFronzo’ era solo una lega metallica inesistente che faceva parte di una sessione di Dungeons and Dragons. Il motivo per cui sono andato da questa dottoressa è quasi irrilevante, ma è importante invece quello che mi è successo lì.

Un psicoterapeuta non è qualcuno che vi fa distendere su un lettino e prende appunti. Perlomeno, non necessariamente, ma nei cinque anni in cui sono stato in cura da lei, sono sempre stato seduto. Eravamo in una stanza quadrata, con scaffali pieni di libri lungo due pareti, una piccola scrivania, un grosso tappeto, e due piccole poltroncine sulle quali ci accomodavamo. Io e lei, uno di fronte all’altra, senza niente in mezzo. Versavo i miei pensieri dentro una bacinella immaginaria, da cui lei tirava fuori cose, me le mostrava, le separava dalle altre, me le spiegava, e mi aiutava a combinarle in un modo diverso. In questa maniera ho scoperto tante cose di me stesso, alcune che sospettavo da tempo, altre che non immaginavo minimamente. Mi ha aiutato tanto dare dei ‘nomi’ alle cose di cui soffrivo, perchè era come capire quali fossero gli abitanti della mia testa. Di solito si parla di ‘depressione’ molto alla cazzo di cane, perchè la gente demonizza parecchio l’argomento. E’ come se dall’immaginario comune venisse accolto come una specie di ‘essere sfigati e comunque molto tristi’, senza soffermarsi sul fatto che è una malattia – una brutta malattia, come un tumore, l’osteoporosi, il parkinson. Di fatto a volte si muore, di questa malattia, anche se la gente tende spesso a puntare il dito contro il malato, cosa che mi fa sempre un po’ incazzare. Ma questo è un altro discorso.

Ciò che volevo presentare, ciò che volevo spiegare in questo scritto (dopo questa lunghissima introduzione volta probabilmente a ritardare la cosa il più possibile), sono per l’appunto due ‘disfunzioni’ che ho dentro di me. Hanno due nomi altisonanti e incomprensibili, e la loro spiegazione medica è probabilmente molto più minuziosa e accurata di quanto io possa scrivere. Proverò lo stesso a darvene un’idea, l’unico favore che vi chiedo è quello di leggere questo scritto prima di andarvene su wikipedia o su qualche rivista medica, perchè questa è la MIA personale spiegazione al tutto. E oltre a medicina e definizioni scientifiche, c’è anche il ‘come’ vivo questa situazione. Non sono un dottore, uno psicologo, un chimico, sono solo una persona a cui un esperto del settore ha detto ‘hai questa cosa, si chiama così, e funziona cosà’. Nient’altro.

La prima cosa di cui soffro, è il cosiddetto tachipsichismo. Non conosco bene l’etimologia, ma se ‘tachicardia’ vuol dire avere il cuore che batte velocemente, analogamente il tachipsichismo significa sfornare tanti pensieri a una velocità molto alta. Non vuol dire, attenzione, che io abbia tante idee geniali o arrivi alla soluzione delle cose prima degli altri: significa semplicemente che la mia capacità di elaborare pensieri è, per qualche motivo, più alta della norma. Non più efficiente, non più utile, non più efficace: più veloce. Penso a tante cose. Tante contemporaneamente. Di fronte a un problema questa capacità può essere utile perchè permette di affrontare la questione da dodici punti di vista differenti, anzichè solo quello canonico; l’altra faccia della medaglia è la dispersione, l’incapacità a volte di usufruire del cosiddetto ‘rasoio di Occam’. Usiamo questa metafora: se una persona deve andare da una stanza all’altra e in mezzo c’è una porta chiusa, tenta di aprire la porta; io invece, prima anche solo di toccare la maniglia, conto i cardini, guardo dal buco della serratura, valuto la resistenza del legno, o studio il disegno che c’è sul vetro.
Tanti di voi avranno visto sicuramente il film ‘Sherlock Holmes’, quello con Robert Downey Jr: lì c’è una cosa simile a questo meccanismo, perchè Sherlock vive le sue situazioni, manda il tempo al rallentatore, analizza minuziosamente ogni elemento, studia le contromisure, e riesce a risolvere tutto nel giro di una manciata di secondi.
Ecco, io ho la stessa cosa, ma senza il ‘tempo al rallentatore’. Spesso i pensieri si accavallano, si rincorrono, si annodano assieme o crollano come una torre del Jenga. Una volta presi un caffè con un’amica, una certa Elena, che mi disse: ‘E’ comico parlare con te, perchè è come se i tuoi pensieri ti rotolassero via dalla testa, e tu non ti curassi nemmeno di andarli a raccogliere, perchè tanto ne generi continuamente di nuovi’. Curioso quanto lungo ci avesse visto senza nemmeno saperlo.
In ogni caso, una volta questo fenomeno era ‘fuori controllo’. Utilizzavo gli escamotage più assurdi per evitare di pensare CONTINUAMENTE e avere, a fine giornata, il cervello fritto; ricordo ad esempio che mi concentravo sui numeri. Leggevo i numeri per la strada: TUTTI i numeri per la strada. Gli 0-24 dei divieti di sosta, gli orari di apertura dei negozi, le targhe delle auto. Tutti questi numeri li sommavo assieme e ci facevo la prova del 9: quando arrivavo a quella cifra, era come arrivare a 0, e potevo ricominciare a vivere tranquillamente. Se trovavo un passo carrabile era quasi un sollievo, perchè 0+2+4 fa 6, e 6 ripetuto tre volte fa 18, e 1+8 fa 9, e tornavo a zero ed ero soddisfatto. Quando non riuscivo ad arrivare a questo ‘bandolo della matassa’, però, mi inquietavo, e la soluzione era sempre guardare uno di quei cartelli di fronte ai cantieri per un nuovo edificio: erano così pieni di numeri che li guardavo tutti insieme, andavo in ‘sovraccarico’ e mi autoconvincevo che sì, in effetti la somma era sicuramente 0.

E questa era una.

L’altra ‘disfunzione’, è un basso livello di inibizione latente. Low Latent Inhibition, mi sembra si chiami in inglese, o LLI.
Allora, l’inibizione latente è un meccanismo di difesa che ha la nostra mente per difendersi dal sovraccarico di informazioni. Tutti noi avvertiamo, continuamente, una serie di stimoli che il nostro cervello decide di ignorare: la sensazione tattile dei nostri vestiti, le nostre natiche che sorreggono il nostro peso quando siamo seduti, la brezza mentre camminiamo, persino il nostro naso di fronte alla faccia. Provate a chiudere un occhio alla volta: vedrete che il contorno del vostro naso è perfettamente visibile. Però per qualche motivo, quando li abbiamo entrambi aperti, viene ‘eliminato’ dall’equazione, come se non fosse necessario. In nome dell’efficienza evolutiva, quella roba in mezzo al campo visivo viene aggirata, consentendoci di osservare paesaggi mozzafiato senza nessuna interferenza.
Gran parte di questi stimoli viene semplicemente eliminata, mentre una piccola parte, da quel che ho capito, va ad alimentare la fucina in cui vengono forgiati i sogni. I visi delle persone che vediamo nel sonno, non li inventa il nostro cervello: sono individui incontrati durante la veglia, ignorati ma ‘registrati’ da qualche parte, per dare evidentemente un senso di verosimiglianza.
Ecco, se l’inibizione latente è un filtro, il mio è bucato. Non in senso catastrofico: ci sono solo dei piccoli fori, qui e là, che fanno passare più roba del dovuto. Non ho i supersensi, ma mi accorgo del gabbiano che passa poco fuori il campo visivo, noto il motivo della maglia di quella tizia che ci ha appena sorpassato, colgo stralci di conversazione nei bar, e soprattutto, mi accorgo di cos’hai se c’è qualcosa che non va.
Non è solo empatia: per qualche motivo, quando ho qualcuno davanti, mi è inevitabile accorgermi della contrazione impercettibile di una narice, dell’inarcarsi immotivato di un sopracciglio, di uno sguardo più spaventato del dovuto. Persino via testo becco immediatamente se una virgola è fuori posto: probabilmente è per quello che mi accorgo di errori grammaticali, o se qualcosa non quadra da ‘come hai scritto la frase’.
Una spiegazione molto accurata e calzante di cos’è la LLI è contenuta nella serie Prison Break, se non ricordo male la trovate su Netflix. Nella prima stagione, puntata nove, minuto ventisette e mezzo (mi pare), c’è un dialogo tra due dottori riguardo cosa sia questo disturbo. Non so se abbia valenza medica ‘reale’, ma per quanto mi riguarda, è la cosa più accurata del mondo – escludendo la parte sulla genialità creativa, giacchè io sono una persona molto autocritica e a volte dubito FORTEMENTE della mia intelligenza. Sarà anche dovuto alla mia esperienza personale: statisticamente, metà delle persone che conosco pensano io sia un cervellone, l’altra metà un perfetto idiota. Non c’è mai una via di mezzo.

Se a tutto questo sommate il fatto che sono una persona ESTREMAMENTE curiosa, avrete capito perchè non smetto mai di parlare o di fare domande, come mai mi guardo continuamente intorno, come mai a volte sembro quasi ‘incepparmi’ durante il discorso. Provo sollievo quando mi sbronzo perchè penso a una sola cosa per volta, e la musica in qualche modo assorbe gran parte di questi casini e mi dà tranquillità: ma quando decido di mollare ogni freno, la realtà circostante è per me un continuo esploso di tutte le sue piccole parti, da analizzare per cavarne fuori qualcosa di curioso o stimolante. Per questo passo ore a informarmi sulle cose più assurde e particolari: conosco il sistema circolatorio e motorio delle tarantole, so come si nutrono i draghi di Komodo, quanto può sopravvivere una noce di cocco in mare aperto, la formula della polvere da sparo, quali sono i solventi dell’ oro e la struttura dei sistemi binari stellari.

Però mi dimentico di pagare le bollette. Mi è capitato di friggere delle cotolette nel detersivo per piatti. Ho tentato di recuperare uno spaghetto durante la cottura tuffando la mano nell’acqua bollente. L’ordine o la puntualità sono concetti ‘affascinanti’ ma per me quasi astratti, e ogni volta che qualcosa mi stimola, mi ci butto con tutto l’entusiasmo possibile, come farebbe un bambino con un giocattolo nuovo.

Per questo rido come un ubriaco, amo disperatamente e con tutto me stesso, abbraccio come se fosse l’ultima volta nella vita, cerco il sollievo altrui dimenticandomi spesso del mio. Per questo faccio fatica ad addormentarmi, a mettere in pausa le cose ed empatizzo sempre, continuamente, con tutto e tutti.

Questi disturbi mi hanno regalato momenti da sogno durante concerti o viaggi in compagnia, e attimi infernali durante la sofferenza, quando moriva un parente o terminavo una relazione sentimentale. In generale però mi hanno ampliato mostruosamente lo spettro delle emozioni provabili, e mi hanno reso equilibratissimo tra estremi opposti. Posso essere la persona più timida del mondo o qualcuno che non ha il minimo riserbo per lo spazio altrui, e molto spesso le persone si spaventano perchè sono in grado di penetrare ogni barriera senza nemmeno accorgermene. Ispiro fiducia, non ne abuso mai, ed entro in confidenza con chiunque nel giro di pochi istanti. Le uniche persone a cui sono ‘allergico’ sono quelle terrorizzate da QUALUNQUE COSA, perchè per quanto mi piaccia cercare nuovi modi per rassicurare qualcuno, va sempre a finire che questo qualcuno trova due problemi per ogni mia soluzione. Finchè sono esausto, e a malincuore e pieno di sensi di colpa, devo andare verso la persona successiva, domandandomi negli anni a venire ‘come mai non sono stato abbastanza’, e ‘perchè non sono stato in grado di aiutarlo’.

E va così, ci sta, fa parte della natura umana. Anche se a volte mi sembra di aver vissuto due, tre, dieci vite più del normale, sentendomi contemporaneamente più maturo e più inesperto di tutto il resto del mondo. I miei non sono castelli in aria, nè fortezze volanti: sono vere e proprie città, mondi che creo e disgrego ogni ora e ogni minuto. Un giorno prenderò tutte le mie esperienze e le butterò dentro un libro, e lo chiamerò ‘Metropoli di un Tachipsichico’, come mi ha consigliato Sergej anni fa. Magari qualcuno, schiodato come me, lo compra pure.

L’ho già detto altre volte, ma riporterò sempre una conversazione che ebbi, un giorno, con un mio compagno di lavoro. Non ho mai capito se fosse un ex tossicodipendente o qualcuno che semplicemente era ‘rimasto fuori’, ma dopo qualche giorno a parlarci, mi disse:

‘Max, tu non dovresti mai drogarti.’
‘E perchè?’
‘Perchè tu vedi già abbastanza cose da sobrio.’

Come Elena, anche lui ci vide lungo. Da oggi, anche voi sapete perchè.

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